ROBERTO TURNO
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Giornalista, Coordinatore Editoriale de Il Sole 24 ore Sanità
Sito web: Il Sole 24 ore Sanità
Contatti: roberto.turno@ilsole24ore.com
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Pubblicazioni / esperienze di riferimento: |
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ASL, Aziende Ospedaliere, federalismo, disuguaglianze, LEA, politiche… Sono innumerevoli le sfaccettature del mondo della sanità e della salute che Roberto Turno da anni conosce, approfondisce e racconta con stile sagace e pungente.
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Data: 15-05-2010
In Primo Piano |
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Le regioni nel mirino. Primato negativo anche nei ritardi dei pagamenti alle aziende rispetto alla media nazionale di 284 giorni
I fornitori calabresi pagati dopo 778 giorni
SITUAZIONE CRITICA – Fracassi (Assobiomedica): dati sottostimati, le imprese scontano le fatture in banca Dompè (Farmindustria): è il momento di intervenire
di Roberto Turno
Ovunque ti giri, trovi sempre loro. Perché hanno i bilanci più disastrati, per gli sprechi più “invidiabili”, per i costi di produzione al top. E perché ora rischiano di dover aumentare la pressione fiscale regionale dove mai è arrivata in Italia. Ma Calabria, Molise, Campania e Lazio – proprio in questa graduatoria – vantano un altro (e triste) primato assoluto, che poi è la conseguenza di tutto ciò che non va nella sanità locale: sono le regioni che rimborsano col maggior ritardo le imprese fornitrici. Leader del disastro delle fatture non pagate è la Calabria: fino a 778 giorni (quasi 2 anni e mezzo ormai) per i prodotti biomedicali e 574 giorni per i farmaci. Molise (rispettivamente 775 e 515 giorni), Campania (662 2 361 giorni) e Lazio (403 e 332 giorni), le fanno degna corona da ultime della classe nei rimborsi ai creditori. Rispetto a una media nazionale che è di 284 giorni per i ritardati pagamenti nel biomedicale e di 222 giorni per i farmaci.
Niente di casuale, è chiaro. Se i denari mancano, si rinviano i pagamenti a chi ha fornito i mezzi per far marciare la macchina dell’assistenza sanitaria. E poco importa che poi le aziende si rivalgano tra interessi legali e di mora. Che per le regioni in bolletta significano costi in più, ma più in avanti. Col risultato di formare un debito sommerso. E di mettere sempre più in difficoltà le imprese, dunque l’economia e l’occupazione. Mentre crescono le azioni di rivalsa dei creditori e i pignoramenti. Ne sa qualcosa la Campania, sicuramente la più esposta finanziariamente.
I conti dei debiti lasciati in freezer sono infatti di tutto rispetto. Quasi 5 miliardi di euro pesano in totale le fattura saldate col contagocce alle imprese del biomedicale, stima Assobiomedica. Di a 3,5 miliardi, invece, è il sospeso delle regioni calcolato da Farmindustria verso le industrie farmaceutiche, di cui solo 1,5 miliardi nelle regioni sottoposte ai piani di rientro.
Ma attenzione, mette in guardia Angelo Fracassi, presidente di Assobiomedica: «Le nostre aziende sempre più ormai scontano le fatture con le banche». Vale a dire: cedono il credito col risultato che i ritardi comunicati sono formalmente di 60 giorni, mentre in realtà le regioni rimborsano con enorme lentezza i nuovi creditori, le banche o chi per loro. «La situazione è in continuo peggioramento proprio nelle regioni più in crisi», aggiunge Fracassi. Che sul nodo della maxi addizionale Irap a carico delle imprese nelle “regioni canaglia”, rimarca una situazione abnorme: «Capisco l’urgenza di rimettere in ordine conti e sistemi sanitari locali. Ma guarda caso l’aumento dell’Irap incide sul costo del lavoro proprio dove c’è più lavoro nero. Così chi già paga la tasse, ne pagherà di più; e chi già evade, continuerà a farlo».
I ritardati rimborsi sono un cappio anche per le farmaceutiche. «È un indice della difficoltà di fare impresa in Italia, del continuo mancato rispetto degli impegni tra le parti», afferma il presidente di Farmindustria, Sergio Dompé. Ma è il sistema-sanità che va rivisto alla radice: «Quando sulle spese ci sono differenze non giustificabili da una regione all’altra, non si può più chiudere un occhio. Se nel cruscotto si accende la spia dell’olio, si deve intervenire subito». Bene, dunque l’opportunità federalista che favorirà «gli straordinari esempi di buona sanità che abbiamo in Italia. Ma non possiamo più permetterci di avere insieme la migliore e la peggiore sanità possibili». Anche per questo, conclude Dompé, va promosso il percorso del Governo con lo stop ai Fas e le scelte che ne deriveranno: «Ci vuole una totale discontinuità col passato». Il fallimento politico degli amministratori incapaci, insomma, è la carta da spendere senza indugi. «Se una famiglia spende oltre le sue possibilità, finisce sempre per pagare i suoi debiti. E noi per primi siamo pronti ad assumerci le nostre responsabilità, se ne abbiamo e quando ne abbiamo».
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Data: 15-10-2010
Norme e tributi |

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Sanità. Indagine di Assobiomedica
Rimborso crediti: i tempi di attesa crescono ancora
IL QUADRO – Il ritardo medio dei pagamenti ai fornitori si attesta a 297 giorni Molise e Calabria superano gli 800 giorni
di Roberto Turno
Ormai è un fiume in piena il debito delle aziende sanitarie pubbliche nei confronti delle aziende fornitrici di beni e servizi decisivi per far marciare la macchina del Ssn.
In soli tre mesi, da maggio a luglio, i tempi di rimborso dei crediti è cresciuto di altri 10 giorni toccando la punta massima da due anni a questa parte: 297 giorni, come dire che mesi prima di onorare le fatture passano dieci mesi e il debito continua a lievitare. Con buona pace per la programmazione industriale e commerciale e la vita delle imprese.
È una disfatta finanziaria vera e propria per il Ssn, soprattutto dal Lazio in giù, quella che emerge dall’ultimissimo check elaborato da Assobiomedica, l’associazione di Confindustria che rappresenta le aziende biomedicali, dalle più “semplici” siringhe alla tecnologia medica più avanzata. Un ritardo che finanziariamente vale 4 miliardi, andandosi a cumulare a un indebitamento monstre verso i fornitori che è stato appena censito dalla Corte dei conti nella relazione sulla situazione finanziaria delle regioni (come anticipato da «Il Sole-24 Ore» del 3 settembre scorso), che a fine 2008 pesava per ben 28,1 miliardi sulle casse regionali. Da sommare però ad altri 19 miliardi, solo nel 2008, contando i mutui e altre tipologie di indebitamento.
La nuova classifica di Assobiomedica sui tempi di pagamento fino a luglio 2010 da parte di Asl e ospedali, peraltro, conferma una volta di più che le sofferenze finanziarie più pesanti sono tutte e sempre a carico delle realtà regionali del meridione. Con tre regioni al top dell’indebitamento, non a caso tutte e tre commissariate e alle prese con complicati piani di risanamento strutturale e finanziario per il rientro da storici disavanzi plurimiliardari. Peggio di tutti sta il Molise, che da 800 giorni di maggio ha visto crescere i tempi di rimborso ai suoi fornitori a quota 818 giorni, ben 18 in più in soli tre mesi; a seguire la Calabria, che insieme al Molise ha toccato il muro di 800 giorni di ritardo per onorare i suoi debiti alle imprese fornitrici; quindi, al terz’ultimo gradino della classifica dei peggiori debitori-pagatori, c’è la Campania che lascia aspettare le aziende creditrici di prodotti biomedicali per 717 giorni.
Proprio alla Calabria e alla Campania va del resto la poco ambita maglia del massimo incremento dei tempi di pagamento ai fornitori negli ultimi tre mesi: ben 29 giorni in più in Calabria e 27 in più in Campania, quasi un mese aggiuntivo di ritardo accumulato in soli 90 giorni.
Se poi si confrontano i tempi di pagamento a partire dall’inizio dell’anno, la disfatta appare addirittura ancora più marcata: +24 giorni. Ma in Molise i tempi sono aumentati di 97 giorni e in Campania di 69. Soltanto la piccola Valle d’Aosta (115 giorni, 7 in meno) ha ridotto le attese.
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Data: 15-10-2010
Editoriale |

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Il federalismo e la traversata del deserto
di Roberto Turno
Tre anni senza contratto, questi tre anni che ci aspettano, non significano soltanto stare prosaicamente fermi un giro con le buste paga dei medici e degli operatori tutti del servizio sanitario pubblico. Tre anni senza contratto, di questi tempi, rappresentano per i sindacati la classica traversata nel deserto. Curioso ma non troppo, il d-day della ripresa sarà il 2013. Sembra quasi che tutto si tenga, che tutto faccia parte di un unico disegno: perché il 2013 sarà (dovrebbe essere) anche l’anno in cui il federalismo fiscale e quella frontiera sconosciuta e da alcuni o tanti temuta dei costi standard, comincerà a essere varcata. Proprio federalismo fiscale e costi standard sanitari che a torto o a ragione sembrano compattare per una volta posizioni sindacali altrimenti spesso opposte. Non allo stesso modo, non con uguali sentimenti, non con la stessa aggiore o minore riverenza filo governativa. Ma certo è che sul/contro il federalismo fiscale preoccupazioni e ansie sono il filo rosso che oggi unisce i sindacati. Che a questo punto, tanto più in questa lunga stagione di stop alle trattative nazionali (le ultime?), avranno modo di fare conti, pensieri e ragionamenti. Sul proprio destino nell’Italia federalista. Sul destino delle professioni che rappresentano. Sul futuro del servizio sanitario pubblico. E mettersi alla prova intanto nelle trattative decentrate, quelle sì da pensare fin da subito in quell’ottica della coesione nazionale che già oggi, e non soltanto domani, rappresenta la sfida delle sfide. Coesione nazionale da difendere a denti stretti, oggi per domani. Ma sapendo che mentre il mondo attorno a noi cambia impetuosamente, non si può far finta che l’esistente sia intoccabile. Perché oggi la scommessa è salvare l’universalità possibile. Chiudere gli occhi sarebbe delittuoso. Fare giochi di casta altrettanto.
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Data: 31-03-2010
In Primo Piano |

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Le elezioni regionali – GOVERNATORI AL LAVORO
Sanità la prima emergenza
Per i neo-eletti conti in rosso, commissari e ora anche rischio decadenza – DISSESTO SUD – Tra Lazio e Mezzogiorno il «rosso» cumulato è arrivato a quota 3,4 miliardi: Polverini, Caldoro e Scopelliti già operativi
di Roberto Turno
L’ultima (ma non ultima) grana è stato l’altolà della Ragioneria generale al contratto dei medici: costa troppo, hanno mandato a dire all’Aran i tecnici di Tremonti. Ad ore si vedrà. Ma è solo un campanello d’allarme davanti alla valanga sanitaria che governatori vecchi e nuovi si troveranno subito ad affrontare, a partire dai neo eletti o confermati del Sud. La miccia dei conti di asl e ospedali soprattutto nelle regioni sotto tutela, il mistero del federalismo fiscale e dei costi standard, lo spauracchio del (futuribile) fallimento politico con tanto di decadenza dei governatori con la spesa in rosso. E se non bastasse, i livelli essenziali di assistenza (Lea) da rivedere e una nuova manovra sui farmaci allo studio. La sanità, che vale mediamente l’83% dei bilanci locali, è la vera mina vagante da disinnescare per le regioni.
Con un rosso cumulato – tra Lazio e Sud – di 3,4 miliardi nel 2009 certificati al tavolo con Economia e Salute, la spesa pubblica sanitaria si conferma il nodo irrisolto dei conti regionali. Con le regioni già commissariate (Lazio, Campania, Molise, Abruzzo) o sotto “semplice” piano di rientro (anzitutto Calabria, Sicilia e Puglia) prime in lista. Lo sanno bene i tre nuovi eletti del centrodestra al Sud, che non a caso proprio alla sanità hanno subito detto di volersi dedicare, da Renata Polverini (Lazio) a Stefano Caldoro (Campania) a Giuseppe Scopelliti (Calabria).
Scopelliti ha ricordato che il governo – come anticipato una settimana fa da Maurizio Sacconi – ha in mente di commissariare la Calabria. E forse, vista la situazione calabrese, neppure gli dispiacerebbe dover prendere decisioni impopolari sotto l’ombrello del governo. Renata Polverini invece ha ripetuto già in campagna elettorale di voler cambiare il piano di rientro dell’ex giunta laziale. Polverini, che sarà la prima donna commissario per la sanità, ha dalla sua la chance concessa da Finanziaria 2010 e «patto per la salute» ai neo governatori: accettare responsabilità ma solo su un proprio piano di risanamento. Salvo che il governo lo accetti. Significherebbe anche chiudere o riconvertire gli ospedali, come il governo ha chiesto al Lazio anche contro le posizioni del centrodestra locale.
Per dire, sarà una sfida per tutte le parti politiche. Con un arbitro, il governo, che vuole e dovrà essere super partes. Ma con problemi immutati sul tappeto. I piani di rientro sono ancora lontani dal traguardo del risanamento, ha ricordato una settimana fa Ferruccio Fazio a Calabria, Molise, Lazio, Campania, Sicilia e Sardegna, anche se non dappertutto allo stesso modo. Ma le difficoltà incombono anche per le regioni “virtuose”.
Senza dimenticare la babele regionale e la scommessa di azzerare i gap: una situazione finanziaria che nel 2001-2009 viaggia dai 1.792 euro di debito pro-capite nel Lazio all’avanzo di 162 euro in Friuli; spese per il personale fino al 2008 cresciute a Bolzano dieci volte più che in Veneto o in Piemonte tre volte più che in Sardegna sui farmaci.
Tirare le somme col federalismo sarà una sfida nella sfida. Con l’aggiunta dell’enigma della Lega tra i governatori: il Carroccio potrebbe chiedere proprio la delega sulla sanità, centrosinistra e Sud permettendo. Intanto la Stato-Regioni deve distribuire i 108 miliardi del fondo 2010 e altri 4 miliardi del federalismo fiscale rimasti ai blocchi di partenza da prima delle elezioni. Forse l’unica nota lieta sanitaria per vecchi e neo governatori.
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Data: 04-10-2009
Politica e società |

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Lo studio per il Welfare. Toscana, Veneto ed Emilia al top. Dal Lazio in giù tutti bocciati
Nelle due Italie della salute se c’è qualità non c’è spreco
In Campania record di cesarei Niente fughe per cure a Milano
di Roberto Turno
Toscana, Veneto ed Emilia Romagna al top con la lode. Tutte le regioni del Centro-Nord promosse spesso col massimo dei voti ma anche con giudizi di sufficienza risicati. E dal Lazio in giù tutti bocciati, con Calabria, Campania e Sicilia, nell’ordine, in fondo alla classifica. Ecco l’ultimo e più inedito identikit dell’Italia della sanità pubblica. Dove la linea Maginot della qualità nel Servizio sanitario nazionale – il Nord all’avanguardia, il Sud che sprofonda – conferma in pieno anche l’andamento della spesa regionale per la salute: dove si spende meno e i conti ancora reggono (Centro-Nord), ci sono più efficienza e cure migliori. Dove invece (Sud) i bilanci sono in rosso profondo, anche gestione e qualità dei servizi sono peggiori. Chi perde, perde due volte.
L’altro ieri è stata la Corte dei conti, nella relazione sulla finanza regionale, a denunciare l’esistenza di un’Italia della sanità finanziariamente spaccata in due come una mela: Nord che regge l’onda d’urto dei conti, Sud nella morsa dei debiti. Ora ecco invece, realizzato per il ministero del Welfare, lo studio del laboratorio «Management e sanità» della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, con la «Valutazione delle performance dei sistemi regionali» su base nazionale. Un report (anticipato dal settimanale «Il Sole-24 Ore Sanità») che niente ha a che fare con i conti di Asl e ospedali. Il focus è dedicato all’efficienza e alla valutazione delle gestioni, con una griglia di 29 indicatori sulla base degli ultimi dati riferiti al 2007. Per ciascun indicatore viene assegnato un giudizio di performance: ottima, buona, media (valori positivi), e scarsa o molto scarsa (negativo).
Sul piatto quattro parametri: assistenza ospedaliera, assistenza sul territorio, farmaceutica e assistenza sanitaria collettiva e di prevenzione. Il Sant’Anna non fa alcuna classifica, sia chiaro. L’obiettivo dichiarato è di stanare i punti di debolezza, Asl per Asl, ospedale per ospedale, per i necessari interventi di miglioramento nella gestione locale. A ciascuna regione, infatti, il ministero ha consegnato lo studio con i dati nazionali, aggiungendo i risultati delle performance delle singole Asl. Mentre il federalismo fiscale avanza, l’analisi del Sant’Anna, che si fonda sul sistema già proficuamente sperimentato da qualche anno in Toscana, offre così qualche arma in più per la realizzazione dei costi standard, ormai un incubo per tutte le Regioni.
Il risultato finale è che tutto il Centro-Nord incassa punteggi positivi, mentre dal Lazio in giù prevalgono i voti bassi. Veneto e Toscana fanno bottino pieno (29 giudizi positivi), seguite da Emilia Romagna (27), poi (tutte a 24 voti positivi) da Piemonte, Liguria, Umbria e Marche. Da notare che a ottenere più volte il massimo giudizio (ottimo) è per 18 volte l’Emilia Romagna. A sorpresa la Lombardia sarebbe solo nona, ma soltanto perché non realizza punteggi alti su alcuni indicatori non sempre legati a doppia mandata col servizio erogato, ma a scelte organizzative (pochi ricoveri in day hospital e troppi per il diabete, poche vaccinazioni anti-influenzali), mentre eccelle sulle minori “fughe” dalla regione per curarsi altrove o sul grado di inappropriatezza.
Per il Sud ci sono soltanto una valanga di giudizi tra scarso e molto scarso. Sonore bocciature, insomma. Ultima la Calabria (26), poi affiancate (23 negatività) Campania, Sicilia e Puglia, e ancora risalendo la classifica il Molise (22), il Lazio (21), la Sardegna (18), l’Abruzzo (17) e la Basilicata (15). A collezionare il maggior numero di giudizi più bassi (molto scarso) è per ben 20 volte la Sicilia, seguita (19) dalla Calabria.
Sorprese e conferme arrivano poi dai giudizi alle Regioni nelle performance per i singoli indicatori. Nel tasso di ospedalizzazione globale l’eccellenza è tra Friuli, Toscana ed Emilia tra 150 e 163 ricoveri per mille abitanti; mentre Campania, Sicilia e Molise sono le ultime con valori da 235 a 222 per mille abitanti, il 50% in più delle migliori. Nelle “fughe” dalla regione per curarsi altrove, “vince” la Lombardia ed ultime sono Valle d’Aosta e Basilicata. I parti cesarei sono il 61% in Campania e il 23% a Bolzano. Il potenziale di inappropriatezza delle prestazioni è minore in Toscana e massimo (quasi 9 volte di più) in Abruzzo. Per le vaccinazioni anti-influenzali in testa è l’Emilia, in coda (quasi la metà) la Sardegna. E così via per tutti gli indicatori analizzati. Nel segno dell’Italia spaccata a metà, appunto.
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Data: 12-10-2009
In Primo Piano |

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ANALISI
Il Mezzogiorno manca all’appello delle best practice
LA PATOLOGIA – Nonostante le riforme il Ssn è ancora vittima di una politica padrona, del baronismo e del clientelismo
di Roberto Turno
Dieci, cento, mille best practice per salvare il soldato Servizio sanitario nazionale. Per dare un senso al diritto costituzionale alla salute e salvaguardare quel che resta dell’universalità delle cure ai tempi della crisi e della scarsità di risorse. In fondo, al di là delle facili (e non raramente legittime) contestazioni e dei casi di malasanità che fanno scandalo, il nostro Ssn non è sempre un Moloch immobile e incapace. Magari non meriterà quel secondo posto al mondo generosamente attribuito qualche anno fa, ma i titoli di sicuro non gli mancano.
Ma dalle mille idee che fioriscono in sede locale per dare efficienza e qualità alla sanità pubblica, una domanda ancora una volta s’impone con la forza dei numeri: dov’è il Sud, in questa casistica di buona sanità? Già, si ricomincia daccapo: il gap Nord-Sud, metafora di un Paese spaccato in due, si traduce drammaticamente anche nell’accesso alle cure. In tutti i sensi. Finanziario, gestionale, burocratico, e naturalmente dal punto di vista sanitario. Altroché universalità dell’assistenza.
Sono trascorsi 16 anni dalla riforma Amato-De Lorenzo, 14 dall’avvio dell'”aziendalizzazione” (che brutta parola) del Ssn, altri 10 dalla legge Bindi, otto anni fa partiva la riforma del titolo V della Costituzione. E oggi stiamo per staccare il biglietto per salire sul treno che ci porterà in terra ignota, quel federalismo fiscale che ha come sano obiettivo quello di eliminare gli sprechi e mettere i cattivi amministratori spalle al muro, salvo poi lasciare aperti inquietanti interrogativi: la tenuta finanziaria del sistema, la capacità (e la volontà) di non separare il Nord dal Sud e di salvaguardare la solidarietà e l’unità del Paese, come non a caso continua a ripetere il capo dello Stato.
Sedici anni e mille riforme dopo, tanta acqua è passata non sempre inutilmente sotto i ponti del Ssn. Il sistema ha acquisito una solidità complessiva di governance ben superiore a quella dei tempi delle mitiche (si fa per dire) «Saub». La consapevolezza del “non è più tempo del tutto a tutti”, e le leggi che in sequenza hanno più o meno trasferito responsabilità in sede locale, hanno costretto a ben altri comportamenti. Ma ancora non basta. La politica la fa da padrona, il clientelismo non demorde, le categorie non hanno perso del tutto il vizietto dell’autoreferenzialità, il baronismo come l’erba cattiva non muore mai.
E il Sud resta la palla al piede del sistema. Immerso in abbondanza nei difetti di un passato mai sepolto. Qualcuno ha evocato l’adozione di un “piano Marshall” per la sanità, in particolare per il Sud. Calma e gesso, verrebbe da dire: perché se è bene evitare di gettar via il bambinello con l’acqua sporca, è altrettanto vero che di piani faraonici sono lastricate le strade del Sud. E la sua gente non può più permetterselo. Soprattutto quando di mezzo c’è la salute.
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Data: 18-01-2008
Politica e società |

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Gattopardi & Sanità. Dai macellai ai manager, 20 anni di partiti nel servizio pubblico
Dalle Saub alle Asl, la lottizzazione è la stessa
PRIMA DI TANGENTOPOLI L’allora ministro De Lorenzo: «I partiti non saranno mai fuori dal settore, come non saranno mai fuori dalle banche e dagli enti pubblici»
di Roberto Turno
In principio le chiamavamo Saub (struttura amministrativa unificata di base), poi, Regione che vai, sono diventate Usl o Asl o Ausl. A comandare erano i comitati di gestione coi loro presidenti, poi sono arrivati gli amministratori straordinari e i comitati dei garanti, quindi i direttori generali. Un tempo le poltrone le occupavano anche macellai, fiorai o alimentaristi – con tutto il rispetto – ma dal 1991 sono arrivate infornate di laureati, poi i manager anche dal privato con «documentate esperienze»nel settore. Ma dalla Saub alla Asl, dal macellaio al manager, un risultato non è cambiato: l’abbraccio fatale dei partiti nei micro e macro affari della Sanità pubblica. Non la politica con la maiuscola, che detta gli indirizzi e non ficca il naso nella gestione, spicciola e di alto livello, nelle assunzioni e nelle nomine di baroni e sottopancia dei baroni. Ma la spartizione dei posti. La lottizzazione a volte brutale.
Rimosse le Saub, andati in soffitta gli amministratori straordinari, in sanità i Gattopardi prosperano e lottano sempre insieme a noi. Cambiar tutto per non cambiar niente: le vecchie regole della Balena bianca, la Dc, ma non solo, hanno fatto scuola. E che scuola. Provare per credere. Correva il 1987, pentapartito col gabinetto Goria, era della Saub e dei comitati di gestione. La Dc, manco a dirlo, faceva il pienone: il 44,4% dei posti, poi il Garofano di Betttino Craxi col 20,9, l’allora Pci col 15,7, e il Psdi del mitico Pietro Longo con l’8,1. Spiccioli per gli altri. Ma sempre manuale Cencelli alla mano. Quattro anni dopo, nel 1991, un anno prima di tangentopoli, nella transumanza alle 651 Usl e agli amministratori straordinari con i loro comitati dei garanti, al cambiar dei fattori il risultato non cambiava. L’aritmetica della politica e delle convergenze parallele raramente rispetta le regole dell’aritmetica. Trasparenza, d’accordo, ma sempre col Cencellum: lo scudocrociato restava il dominus e anzi cresceva al 46,6%, salivano anche i socialisti del Psi al 23,8, muoveva all’insù col 16,4 l’ex Pci diventato Pds con Achille Occhetto; sprofondavano invece i socialdemocratici dimezzando i lottizzati al 4,2%, i liberali perdevano un terzo delle poltrone, i repubblicani cedevano il 10% di poltroncine. La truppa del Msi-Dn possedeva un invisibile 0,2% di seggiole: lo sdoganamento di Berlusconi arriverà solo tre anni dopo.
Varrebbe rileggerle le cronache di quegli anni d’oro, su cui sanitopoli ci aprì definitivamente gli occhi. Quando si capì che la Sanità era un pozzo senza fondo per la finanza pubblica, con i debiti pagati a pié di lista ma senza veri responsabili, tanto che Amato nel 1992, nel pieno dello shock finanziario, decretò: «Basta col tutto a tutti». Arrivò la famosa manovra “lacrime e sangue”. Ma ancora uno o due anni prima, era un effluvio di promesse di buona politica. Non lottizzeremo di qua, non spartiremo di là.
La riforma Amato-De Lorenzo nacque anche con questi presupposti. Era la fine del 1992, e qualche mese dopo, scoppiata farmacopoli, De Lorenzo gettò la spugna. Fu Maria Pia Garavaglia, con Ciampi premier, a varare poi il famoso Prontuario dei farmaci, che quasi dimezzò la spesa per pillole e sciroppi di Stato. Intanto nel giugno 1991, per sponsorizzare la sua non ancora legge, De Lorenzo non aveva dubbi: «Ciò che ora interessa è che gli amministratori straordinari non consentano promozioni facili di portantini che diventano dirigenti amministrativi, o che non permettano l’imboscamento degli infermieri negli uffici politici». Già, il posto di scambio. Mentre proliferavano gli ospedali nel deserto, monumento allo spreco e alle opere incompiute. E ancora, sempre l’allora ministro con lungimiranza: «I partiti non saranno mai fuori dalla sanità, come non saranno mai fuori dalle banche pubbliche, dagli enti pubblici o dai servizi pubblici le cui nomine sono di competenza politica. Solo privatizzando le aziende di Stato è possibile eliminare le interferenze dei partiti». Aveva il modello Usa in mente, De Lorenzo: «Anche per la sanità penso che si dovranno individuare forme di allentamento del monopolio dello Stato: fino a che la spesa resta pubblica, solo livelli istituzionali democraticamente eletti potranno nominare i rappresentanti delle Usl». In qualche modo troppo demonizzato, De Lorenzo s’è riabilitato col volontariato nell’oncologia.
I Gattopardi, si diceva. Ora, è chiaro, l’Emilia, o la Toscana, o la Lombardia, non sono la Campania. Non è che sempre tutto il mondo è paese. E i manager di oggi sono di ben altra pasta e capacità dei presidenti-macellai. Resta il fatto che anche la Turco sente l’obbligo di cambiare rotta. Ma le Regioni traccheggiano. «Se paghiamo noi, che volete?». Già, i peccati del federalismo.
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Data: 22-12-2008
Politica e società |

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Welfare – L’ANNIVERSARIO DELLA RIFORMA
Asl e ospedali, una cura lunga 30 anni
Il Servizio sanitario nazionale, nato alla fine del 1978, ha accumulato oltre 57 miliardi di disavanzo – IN POSITIVO – Secondo i suoi sostenitori la conquista di civiltà più rilevante è rappresentata dal diritto all’«universalità» delle prestazioni – I VIZI – I detrattori non mancano di sottolineare le storture del clientelismo e la consuetudine di tangenti e corruzione
di Roberto Turno
I suoi tifosi non si stancano di ricordare il secondo posto al mondo che l’Oms, l’Organizzazione mondiale della Sanità, gli ha attribuito fin dal 2000. I detrattori affondano il dito nella piaga dei 57 miliardi di euro di disavanzo accumulato fino ad oggi. I welfaristi più convinti vantano in cima a tutto la conquista di civiltà e di universalità di diritti sociali garantiti che ha rappresentato. Chi lo stronca ne mette in vetrina i vizi del clientelismo, della tangentocrazia e del crescere del gap Nord-Sud: altroché universalità.
È la solita storia del bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno. Alle spalle già tre cure di gerovital e altrettante riforme in tre decenni, per il nostro Servizio sanitario nazionale è tempo di bilanci. Tanto più sotto l’incalzare di quel federalismo fiscale che è destinato a sconvolgere vecchi equilibri e modi di gestire la cosa pubblica. Dunque, anche la nostra salute. E perciò lo stesso Ssn: di cui non è dato sapere come sarà, salvo che niente più sarà come adesso.
Ha appena compiuto 30 anni il Ssn: correva il 21 dicembre del 1978 quando la Camera con 381 sì, 77 no e 7 astenuti, dopo anni e anni di contrasti, varava la legge 833. Ministro era Tina Anselmi (Dc), mentre a guidarne l’applicazione venne chiamato il suo più fiero oppositore, Renato Altissimo (Pli): quasi un segno del destino. Che anno, quel 1978 sotto il segno della solidarietà nazionale. L’anno dell’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta, di un presidente della Repubblica (Giovanni Leone) inciampato nello scandalo Lockeed, di Sandro Pertini nuovo inquilino del Quirinale, di tre pontefici in pochi mesi. Nacquero quell’anno anche la legge sull’aborto e la riforma della psichiatria del mai abbastanza rimpianto Franco Basaglia.
Intanto sono trascorse dieci Legislature, si sono succeduti 29 Governi e altrettanti ministri (16, considerati i pluri incarichi assegnati), con Rosy Bindi che vanta il più lungo mandato di sempre con 1.417 giorni consecutivi sulla poltrona di ministro. Da Girolamo Sirchia nel 2001 la Sanità è diventata ministero della Salute. E da maggio 2008, con Maurizio Sacconi, non è neanche più un ministero a sé: è parte del super Welfare. Che poi non è solo questione di nome. Sempreché, come sembra sempre più probabile, il ministero non rinasca e a guidarlo Berlusconi non riesca davvero a insediare il suo pupillo, il professor Ferruccio Fazio, oggi sottosegretario, che viene dal San Raffaele di Don Verzé, altro pallino del Cavaliere.
Curioso destino, trent’anni dopo. Quasi un mondo che torna indietro. Aborto e psichiatria sono oggi sotto scacco da parte del centrodestra. E per il Ssn grandi lavori sono in corso, più o meno sotto traccia. Il federalismo è la prossima avventura, peraltro già in moto dopo la riforma costituzionale del 2001 col pieno di poteri assegnati alle Regioni dal centro-sinistra. Il giro di vite del “tutto a tutti”, già da anni in atto come testimonia l’aumento della spesa privata, continuerà a compiersi e forse solo la crisi e i suoi riflessi sulle famiglie stanno ritardando, proprio per non aggravare ancora di più il bilancio sociale, scelte e decisioni in qualche modo già in cantiere. Come il taglio delle prestazioni essenziali, i Lea.
Mentre incalza la voglia di Fondi integrativi per sgravare parte della spesa dal settore pubblico. Con quali risultati sul permanere di quanto resiste dell’universalità, è tutto da dimostrare. Certo, sale la voglia di lotta agli sprechi, alle gestioni facili, ai troppi ricoveri inutili, e via discorrendo e tagliando. Perché in fondo al barile c’è sempre qualcosa da grattare, molto sicuramente resta da disboscare dalla giungla delle spese. Ma molto, forse troppo resta da aggiustare – anzi: da creare ex novo – in una larga parte d’Italia, soprattutto da Roma in giù. Perché il Sud resta la grande incompiuta, a fronte di un Nord e di parte del Centro del Paese, soprattutto lungo la dorsale apenninica, che riesce a reggere l’onda d’urto e a offrire esempi di altissima eccellenza. Se un milione di italiani ogni anno si spostano da casa in cerca di cure in un’altra Regione, e se il Sud offre almeno il 70% di emigrati sanitari, vorrà pur dire qualcosa. Proprio il Sud che di quei 57 miliardi di disavanzi, ne ha accumulato da solo almeno il il 60-70 per cento.
Trent’anni dopo le sfide per salvare il Ssn e l’universalità possibile sono apertissime. E si arricchiscono di scommesse: misurare l’efficienza, i professionisti, la qualità degli ospedali, la soddisfazione dei pazienti. Progettare il nuovo. A farcela.
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